Clima, Galletti: Europa sia motore di una intesa globale

Lavoriamo fino all’ultima ora per accordo a Parigi, necessaria nuova giustizia ambientale e sociale.
Pubblichiamo l’intervento del Ministro Galletti al Convegno Edison “Cambiamenti climatici e impatti geopolitici.
Milano (2 Ottobre) - Ringrazio Edison per avere organizzato questa mattinata di confronto che ha il pregio di porre l’accento su un aspetto fondamentale del negoziato in corso in vista della COP 21 di Parigi.
Un accordo sui cambiamenti climatici, come quello che speriamo di firmare nella capitale francese fra due mesi, è infatti molto più di una intesa sulle tecnologie per la produzione di energia, è molto più di un impegno economico in favore dei paesi poveri per finanziare le misure di adattamento agli effetti del surriscaldamento globale.

Per Parigi passerà il confine fra la vecchia e la nuova economia, fra i vecchi e i nuovi rapporti di forza nel mondo, fra la volontà di superare le tensioni socio-economiche che i cambiamenti climatici innescano e la sconfitta di subire queste tensioni senza una strategia per affrontarle. Non temo di esagerare dicendo che l’accordo di Parigi potrebbe rappresentare il paradigma di un nuovo ordine mondiale, investendo e condizionando in maniera decisiva l’assetto sociale, economico e politico del pianeta.

Proprio perché molte ed importantissime sono le implicazioni che stanno a monte di una intesa sul clima, io sono fra quelli che non si nascondono le difficoltà esistenti ed il rischio di un fallimento del vertice. Ma sono anche fra coloro che in questi mesi hanno registrato con piacere i segnali importanti che sono giunti in direzione di un accordo.

Voglio in primo luogo citare l’enciclica “Laudato Sì” di Papa Francesco che ha restituito alla questione dei cambiamenti climatici quella dimensione umana ed etica che in questi anni aveva spesso smarrito, a vantaggio di letture prevalentemente economiche e tecnicistiche. E’ una interpretazione del problema che il Pontefice ha ribadito nei giorni scorsi dinanzi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e che richiama alle proprie responsabilità tutti i governi del pianeta, ma anche tutte le imprese ed ogni singola coscienza.

Un’intesa sul clima non potrà che essere, se vorrà essere efficace, un’intesa politicamente e socialmente equa, che tenga conto delle esigenze dei paesi più poveri, del loro diritto allo sviluppo, e quindi che preveda strumenti tecnologici e finanziari per far sì che tale crescita socio-economica sia ambientalmente sostenibile.

Il Papa, dalla sua altissima cattedra morale, ha imposto nel dibattito in vista di Parigi termini come “Ecologia Integrale”, e cioè ambientale ma anche sociale ed economica, o come “Debito Ambientale”, a indicare il dovere che hanno le nazioni più ricche, che hanno sfruttato e in molti casi ancora oggi sfruttano, le risorse naturali dei paesi poveri, di intervenire a sostegno delle economie più deboli.

Questi argomenti non erano assenti dal dibattito sul clima, ma venivano trattati con una declinazione prevalentemente tecnico-finanziaria. Le parole del Santo Padre li hanno riportati nel loro alveo pre-economico e pre-tecnico, quello morale, che concerne i valori universali di umanità e di equità.

Esiste, ormai è chiaro a tutti e nessuno potrà sottrarsi a questa valutazione, una dimensione della questione climatica che viene prima dei target delle emissioni da tagliare, prima dei fondi da versare per l’adattamento agli eventi estremi, prima delle tecnologie da esportare, è la dimensione umana. Perché a Parigi le conseguenze di un successo o di un fallimento prima di tutto avranno effetto su esseri umani. Esseri umani che vedranno le loro case travolte dagli uragani, le loro isole sommerse dall’innalzamento del livello del mare, le loro terre da cui traggono cibo e in cui vivono divorate dalla desertificazione. Esseri umani che oggi hanno diritto alla speranza, esseri umani di domani che hanno diritto a ricevere in eredità da noi un pianeta vivibile e con le risorse necessarie ad alimentare di cibo ed energia una popolazione sempre maggiore.

Ed è questo “fattore umano” il primo “impatto geopolitico” che i cambiamenti climatici stanno innescando. Mi riferisco in particolare alle “migrazioni climatiche” già iniziate e che si calcola che nei prossimi decenni potranno muovere 250 milioni di persone.

Si tratta di un fenomeno dalle proporzioni enormi che si sovrappone alle spinta migratoria di milioni di persone che fuggono dalla guerra, dalle persecuzioni razziali e religiose. Oggi per cercare di fronteggiare la pressione dei migranti ai confini dell’Europa si cerca di fare una distinzione fra quanti fuggono dalle guerre e dalle persecuzioni e quanti fuggono dalla povertà, i cosiddetti “migranti economici”. Ma molti dei cosiddetti migranti economici sono l’avanguardia dei migranti ambientali, persone, famiglie, che abbandonano una terra che non consente più loro di vivere, che non è dotata più di quelle “infrastrutture ambientali” che consentono ad esempio alle società rurali di vivere, la disponibilità idrica in primo luogo.

C’è una fascia del pianeta che si sta inaridendo, un fenomeno che tocca anche l’Italia, ma che, ad esempio nell’africa sub sahariana, riguarda circa 700 milioni di persone.

E’ una polveriera sociale e politica che è prossima ad esplodere e che insiste su un’area, l’africa del nord ed il medio-oriente, già ad altissima instabilità.

Una intesa sul clima per essere efficace dovrà anche indicare un modello di sviluppo credibile ed attuabile nell’arco di pochi decenni per queste aree del pianeta che hanno una sostenuta crescita demografica e che devono essere messe in condizione di realizzare un adeguato sviluppo socio-economico. Ma  questi paesi non devono avere la disponibilità delle tecnologie che già esistono e che vanno esportate per produrre energia in modo sostenibile. La loro crescita, se alimentata con gli idrocarburi, avrebbe un impatto insostenibile sul clima.

Lo stesso discorso di insostenibilità ambientale vale per le centinaia di milioni di indiani e cinesi che si apprestano ad entrare nella “classe media” mondiale, in quella fascia con qualità di vita e relativi consumi energetici, assimilabili ai nostri. Questo salto di condizioni di vita, che è certamente auspicabile e ovviamente non arrestabile, se avverrà “andando a petrolio”, sarà devastante per il pianeta. E non ci saranno riduzioni delle emissioni europee in grado di compensarlo. Con il nostro 10% di emissioni globali, peraltro il continua riduzione, noi del vecchio continente dobbiamo avere un ruolo politico forte nella consapevolezza che l’incidenza materiale dell’Europa, in termini di riduzione delle emissioni, sarà sempre più marginale, anche in virtù delle politiche ambientali che abbiamo attuato e che sono le più avanzate del mondo.

In questa partita complessa si inserisce la questione energetica, che è, lo sappiamo, determinante. Anche in questo campo, voi lo sapete meglio di me, la situazione è in veloce movimento. Siamo col petrolio a prezzi bassissimi, con l’America che da importatore storico di potrebbe diventare a breve esportatore grazie agli idrocarburi non convenzionali. E cambiando i flussi di import-export di petrolio, le relazioni e rapporti geo-politici che si modificheranno.

Negli ultimi 50 anni Europa e Stati Uniti sono stati i maggiori interlocutori economici dello scacchiere medio orientale. Oggi andiamo verso una sostanziale autosufficienza energetica di Washington e verso un’Europa sempre meno dipendente dal petrolio per via delle politiche di decarbonizzazione che sono state adottate. A questo calo della domanda da occidente corrisponderà un forte crescita della domanda da oriente con un nuovo inedito scenario in cui il petrolio medio-orientale andrà sempre più verso l’Asia, la Cina, l’India, la Corea.

Se sono attendibili le stime degli analisti secondo cui il 70% della nuova domanda di energia verrà dai nuovi giganti asiatici è facile intuire l’entità delle modificazioni delle sfere di influenza anche economica che ne deriveranno. Rischiamo di avere un medio-oriente che ribolle di conflitti e guerre ai nostri confini, con la conseguente pressione migratoria sull’Europa, ma una incidenza politico-economica europea decrescente.

Abbiamo la prospettiva di un asse politico mondiale che si sposta verso est con grandi player politico-economici come Russia e Iran che sono anche grandi produttori di idrocarburi e India e Cina che sono i mercati del futuro.

Questa prospettiva rappresenta un capovolgimento di ruoli e responsabilità per quanto concerne la sfida dei cambiamenti climatici. Nei prossimi 20-30 anni le sorti delle emissioni di C02 e gas serra avranno come protagonisti decisivi paesi che, eccezion fatta per la Russia, sono rimasti fuori dal perimetro del protocollo di Kyoto e da quell’impostazione che s’è rivelata mediaticamente formidabile ma perdente dal punto di vista sostanziale, cioè quello della riduzione globale delle emissioni. Dalla sigla del protocollo ad oggi la percentuale di Co2 nell’atmosfera è continuata a crescere, nonostante le cospicue riduzioni da parte europea.

Nel 1990 i paesi sviluppati, inseriti nel famoso allegato B del protocollo di Kyoto, erano responsabili di oltre il 62% delle emissioni di C02, i cosiddetti paesi in via di sviluppo, fra cui la Cina e l’India, del 34%. Oggi, a 25 anni di distanza, le percentuali si sono praticamente invertite, con i paesi sviluppati che hanno ridotto di circa il 5% complessivamente le emissioni rispetto al ’90 e i paesi in via di sviluppo che le hanno aumentate di circa il 200%. 

Ciò non significa ovviamente che noi europei, siccome abbiamo fatto i compiti a casa di Kyoto e visto che il centro delle emissioni si allontana dal vecchio continente, possiamo restare fuori dalla partita. Sarebbe un errore pericolosissimo sia in termini ambientali che in termini politici.

Sotto il profilo ambientale è evidente che il taglio delle emissioni definito dall’Europa, che è di gran lunga il più consistente del mondo, non ci mette al riparo dai cambiamenti climatici. Significa solo che la parte del mondo che produce il 10% dei gas serra sta riducendo ulteriormente la sua quota.

Ma se il surriscaldamento globale continuerà a dispiegare i suoi effetti l’Europa non sarà al riparo dalle conseguenze sempre più gravi di questo fenomeno. In Italia stiamo già vedendo quanto siano distruttivi gli effetti dell’incremento della violenza e della frequenza dei fenomeni meteorologici estremi. Se non riusciremo a definire una intesa che argini l’effetto serra, tali fenomeni potranno solo aumentare con conseguenze drammatiche sia in termini di perdita di vite umane che di danni economici.

C’è anche un profilo più strettamente politico in questa partita ed è quello della rischio della marginalità che l’Europa corre e che deve essere evitato. A Copenhagen la complessa architettura dell’accordo che si voleva realizzare venne politicamente spazzata via dall’interlocuzione diretta fra Obama e il premier cinese. C’era da un lato un’Europa che tentava di imporre un paradigma simile a quello di Kyoto anche a paesi che Kyoto non l’avevano ratificato, come gli Stati Uniti, o che dai tagli di Kyoto erano esclusi, come la Cina, e dall’altra parte i due principali emettitori di Co2 del pianeta che definivano bilateralmente intese sul clima.

Oggi lo scenario è mutato il gigante cinese sente il peso dell’inquinamento e avverte qualche scricchiolio nella sua crescita economica, la politica estera americana in medio-oriente è meno protagonista rispetto al passato e l’espansione degli idrocarburi non convenzionali sta mostrando serie controindicazioni ambientali. I due grandi emettitori di Co2 dialogano e annunciano positive misure ambientali, ma non possono decidere da soli, anzi auspicano il raggiungimento di un’intesa globale a Parigi.  

Il panorama internazionale è, insomma, in grande movimento e si stanno ricomponendo ruoli e assi, magari ieri impensabili.

L’Europa a Parigi ha una missione complessa ed importante. Può e deve essere motore di una intesa che tenga dentro tutti, che sia accettabile sia per i grandi che per i piccoli paesi, sia per i paesi ricchi che per i paesi poveri.

L’orizzonte che l’Europa s’è data è zero emissioni al 2100. E’ un punto di riferimento alto e qualificante, un obiettivo al quale tendere e verso il quale spingere la comunità internazionale. Ma per farlo occorre la consapevolezza politica, prima ancora che scientifica, della necessità di un accordo. Un accordo che, come dicevo in apertura, possa rappresentare il paradigma di un nuovo ordine mondiale che sia in grado di

ridurre le emissioni globali di gas serra per contenere l’incremento delle temperature entro i 2 gradi;

mettere in campo risorse finanziarie adeguate per gli interventi di adattamento necessari ai paesi più poveri e più esposti ai cambiamenti climatici;

definire un sistema di trasferimento di tecnologie sostenibili per consentire ai paesi poveri uno sviluppo socioeconomico adeguato senza il ricorso a combustibili fossili;

configurare una fase di transizione del sistema energetico mondiale entro pochi decenni dall’alimentazione con idrocarburi ad una alimentazione con risorse rinnovabili, con una promozione ed incentivazione delle soluzioni tecnologiche capaci di moltiplicare l’efficienza energetica. 

L’Europa può rappresentare un laboratorio in questa direzione, può offrire alla comunità internazionale le sue buone pratiche in materia di diffusione di rinnovabili, di efficienza energetica, di normative per il contenimento delle emissioni climalteranti.

Io credo infatti che sia necessario accoppiare agli obiettivi da raggiungere gli strumenti per perseguirli, che non si possa definire una “exit strategy” dal riscaldamento globale solo configurando obblighi e doveri e limiti come si tentò di fare a Copenhagen.

L’accordo di Parigi non può essere “punitivo”, economicamente depressivo.

Credo invece che sia necessario individuare il perimetro di un’intesa, ma motore di sviluppo e di innovazione tecnologica, fattore di elevazione sociale e di crescita economica per il sud del mondo senza comportare una decrescita per i paesi industrializzati.

Un accordo che sia anche viatico di un dialogo più ampio in un momento in cui su temi ambientali è forse più facile essere d’accordo rispetto ad altre questioni che dividono il vari paesi del mondo.

Solo se avrà queste caratteristiche inclusive, di sviluppo, di giustizia ambientale e sociale, solo se sarà globale nell’adesione e nella visione del mondo, l’accordo di Parigi potrà essere siglato e sarà una vittoria per tutti.

E’ quello a cui lavoriamo e lavoreremo ogni giorno e fino all’ultima ora a Parigi.

  


Ultimo aggiornamento 08.10.2015